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TI AIUTERO’ A SCRIVERE LA TUA STORIA

Featured image: Solomon Cue Photography

Irene, operatrice della nostra organizzazione partner Associazione Papa Giovanni XXIII, ci racconta l’essere mamma affidataria di ragazze vittime di tratta.

Un viaggio fatto di sogni, speranza e determinazione verso un nuovo progetto di vita

The English version of this interview with Irene Ciambezi from out partner Associazione Papa Giovanni XXIII, will be published soon.

Photo Credits: Sylvia Kouveli

Abbiamo intervistato Irene Ciambezi, referente della comunicazione e dei progetti europei del Servizio Anti-tratta dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. L’associazione sin dalla sua fondazione ha a cuore le vittime di tratta a fini sessuali, e negli ultimi anni anche vittime di accattonaggio e sfruttamento lavorativo. Partner del progetto CRISALIS, attualmente assistono 111 vittime di tratta a fini sessuali grazie a 304 famiglie che accolgono in Italia e nel mondo. In 10 anni di casa-famiglia, l’associazione ha accolto donne e ragazze di 7 nazionalità diverse. Quattro delle nostre ragazze CRISALIS, hanno intrapreso un percorso in casa famiglia, prima di arrivare a Verona.

Irene ha iniziato a lavorare per APG23 nel 2002, in una casa rifugio per donne vittime di sfruttamento sessuale in prima accoglienza, e qui ha capito cosa vuol dire il vero recupero di una persona che è stata violata nella sua dignità, nel suo corpo e nella sua mente e che questo richiede una prospettiva di speranza nel costruire insieme un progetto intorno al loro sogno di bambine.

Quante ragazze ospiti a casa tua? Che età hanno le ragazze?

Come famiglia affidataria abbiamo con noi una ragazza e ne seguiamo altre due. Accogliamo una persona da quando aveva 16 anni che oggi ne ha 20, adesso è nella fase di autonomia lavorativa e si avvia all’autonomia abitativa. Abbiamo costruito insieme un progetto legato alla sua passione per l’industria tessile, il cucito, i tessuti, gli abiti. Le altre due ragazze sono oggi inserite una, di 21 anni, in un progetto di accoglienza in Germania mentre l’altra lavora stabilmente, con grande coraggio durante questa emergenza sanitaria, come addetta pulizie e mensa per una casa di riposo.

Qual è secondo te il tuo ruolo nell’aiutare queste ragazze?

La cosa importante per tutti noi, educatori e non solo volontari, è che l’accoglienza è una scelta di vita. Credo che il compito più difficile sia l’incontro con culture diverse, che richiede un lavoro personale di liberazione da pregiudizi e stereotipi. La mia sensibilità come mediatrice e comunicatrice interculturale, mi aiuta a cogliere quanto le differenze siano fonte di ricchezza. Ognuno di noi, anche la persona più ferita, ha nelle sue radici una mamma ed un papà. Credo nel garantire una famiglia a chi non la ha, cercando di ricostruire, senza mai sostituirsi, quel legame famigliare che ti fa dire “Ho una famiglia anche in Italia”. È un continuo ricercare il senso delle origini delle radici.

Cosa vuol dire per te essere “mamma” di queste ragazze?

L’essere mamma e papà vuol dire essere capaci di vedere le potenzialità della persona, fermarsi anche nei momenti più difficili guardando al percorso legato al positivo che c’è, che magari ti ha condiviso in un momento di confidenza. Di fatto, vuol dire essere un capro espiatorio di tutte quelle sofferenze, quella rabbia che non c’entrano con te perché la persona stessa deve affrontare le sue paure, la repulsione verso sé stessi, il non accettarsi, l’essere stati costretti in quella circostanza. Quindi essere mamme vuol dire cogliere le loro ferite che non possiamo curare ed essere vicini perché prendano il coraggio di attuare delle strategie per guarire. Mettersi in ascolto, molte volte accettare il silenzio ed essere pronti ad essere mamme per la vita.

Quali sono le difficoltà di questo lavoro?

La difficoltà principale è che ci sono percorsi con dei tempi molto stretti, che non rispecchiano però i tempi di donne e ragazzine che affrontano il passaggio ad una fase di crescita diversa. Cerchiamo di rispettare questi tempi, ma è chiaro che se necessario scegliamo di andare oltre per dargli il loro tempo. Bisogna partire dalla centralità della persona e dalla sua storia, sapendo accettare di andare avanti, anche senza più sostegno, con quello che si ha. Un’altra difficoltà è ricostruire il sistema culturale, radici, valori e la dimensione spirituale, parte integrante del processo di integrazione per capire il senso della propria storia e della propria vita.

Quali sono le qualità che deve avere una persona per poter accogliere una ragazza che è stata vittima di tratta o di abusi?

Penso che la qualità principale sia la capacità di lavorare su sé stessi, di attraversare i pregiudizi per poi superarli, soprattutto stereotipi razziali. La seconda qualità è saper lavorare insieme agli altri. Accolgo ma non sono un’isola felice, quindi so che la persona avrà bisogno anche di altre risorse; vuol dire anche accogliere una rete di collaborazione, di legami e di richieste di aiuto sul territorio.

Qual è il legame che si crea tra di voi?

L’aspetto più importante è costruire una relazione di fiducia, sana e significativa e poi far sì che questo legame non venga frainteso. Ho un ruolo di mamma ma non potrò mai essere la persona che ti da tutte le cose che ti mancano. Devi poter farcela da sola, ti do dei consigli ma sei tu che devi fare delle azioni. È una relazione di fiducia che però, nei momenti adeguati, sa essere una relazione di sano distacco perché sempre dentro un processo educativo.

Potresti raccontarci un episodio o una ragazza che ti sono rimasti impressi in questi anni?

Un’esperienza che ci colpisce molto ancora oggi è quella di una ragazza di 17 anni che abbiamo accolto, quando ci fu il terremoto in Emilia, attraverso l’aiuto dei servizi sociali. Viveva in un paese distante dal nostro e veniva a frequentare una scuola di ristorazione, la sua passione, e la terza media. Quello che mi colpì fu che in quel periodo ha dimostrato un senso di responsabilità e coraggio rispetto al suo percorso. Se vuoi essere protagonista, non devi fermarti davanti alle difficoltà ma tenere alto l’obiettivo. È andata avanti fino alla fine, ha ottenuto la licenza media ed il diploma di ristorazione, e poi il tirocinio formativo. Ha trovato lavoro in un’altra città, ed adesso è una persona autonoma ed indipendente. Una donna in gamba e molto responsabile, che a distanza di anni ancora sentiamo.

Secondo te di che cosa ha bisogno una ragazza che è stata vittima di tratta per integrarsi nel tessuto sociale italiano? E di cosa ha bisogno/ cosa hanno bisogno di sapere l’Italia e gli italiani per accoglierla

Innanzitutto, la discriminazione va affrontata, perché esiste, specialmente quella di genere. Ancora oggi, tanti uomini/clienti italiani si avvicinano per strada a queste giovani (ragazze sopravvissute alla tratta in autonomia, lavoratrici o studentesse) e solo perché straniere e donne si rivolgono loro etichettandole come prostitute e chiedendo loro prestazioni sessuali. Bisogna saper affrontare ed ascoltare le situazioni di discriminazione, per accoglierle e superarle. Il secondo aspetto è l’integrazione intesa come scambio tra culture, saper cogliere il buono della cultura italiana e delle altre che incroci. Per quel che riguarda il territorio, lavorare molto sulla discriminazione, specie razziale, che è un ostacolo enorme. Un altro aspetto è saper cogliere che i giovani, i nostri figli ed i giovani stranieri, sono una potenzialità per il benessere del nostro paese ed una risorsa importante.

Una volta finito il percorso di sostegno, cosa ti lasciano come insegnamento le ragazze, cosa ti apportano a livello umano? E tu cosa cerchi di lasciare loro?

A livello umano, è un tipo di accoglienza molto dura. Chi ha passato un’esperienza di tratta mette a nudo la tua motivazione. Quello che ti lasciano è comprendere che c’è un allenamento nella vita e nel lavoro, ad essere sempre motivato e dare il meglio di te. L’obiettivo è vedere la dignità della persona ricostruita, quindi la gioia di poter vedere per alcune storie di aver costruito insieme un senso di cittadinanza attiva, l’essere parte di un processo di integrazione nel paese, aver costruito un pezzettino di società interculturale, non violenta, accogliente, diversa. Nel momento dello sgancio, cerchiamo di dare un’idea chiara: noi ci siamo, la porta di casa è sempre aperta ma adesso sta a te camminare. Lasciamo loro una sensazione di nucleo nuovo da costruire, una storia nuova che si deve scrivere. È molto importante, rimaniamo figure di riferimento con un certo distacco: non disturberò adesso, perché questa è la tua storia.

Grazie mille Irene per aver condiviso con noi la tua esperienza! Per saperne di più sul nostro partner Associazione Papa Giovanni XXIII, visitate la loro pagina web www.apg23.org

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